Il quadro emerso dai reparti di Medicina interna degli ospedali italiani è quello di un sistema saturo, in cui oltre il 58% delle unità operative lavora già in overbooking, con tassi di occupazione dei posti letto superiori al 100%. Questo significa letti mancanti, pazienti in barella nei corridoi e condizioni di lavoro critiche per medici e operatori sanitari. La gestione dei casi cronici e complessi, in particolare degli anziani con più patologie, si scontra con risorse insufficienti, mentre l’85% delle unità segnala carenze di personale ormai strutturali.

Ricoveri evitabili e territorio fragile

Secondo i dati raccolti, almeno un terzo dei ricoveri attuali si sarebbe potuto evitare con una presa in carico più efficace da parte della sanità territoriale. Servizi domiciliari, continuità assistenziale, strutture intermedie e medici di famiglia meglio organizzati avrebbero potuto alleggerire sensibilmente la pressione sugli ospedali. Ma il territorio è fragile, sottofinanziato, e anch’esso in sofferenza per la cronica carenza di personale.

Nel 32% dei reparti i letti che si sarebbero potuti liberare ammontano a circa il 10-20% del totale. In quasi il 19% dei casi si sale a una quota di ricoveri evitabili tra il 31 e il 40%, mentre il 6% segnala una percentuale che supera il 40%, con punte più elevate nelle regioni del Sud.

Ospedali italiani nel caos: la prevenzione che non c'è

Ospedali italiani nel caos: la prevenzione che non c'è

Ad aggravare ulteriormente il quadro della sanità italiana c'è la debolezza delle politiche di prevenzione. Bassi tassi di screening, scarsa adesione vaccinale e stili di vita poco sani fanno da contesto a un investimento pubblico tra i più bassi d’Europa nel settore preventivo. Il risultato? Un quarto dei ricoveri è causato da patologie che si sarebbero potute intercettare o evitare prima.

Nel 35% delle unità operative, tra l’11 e il 20% dei ricoveri è attribuibile alla mancanza di prevenzione. Nel 30% dei casi si sale fino al 30%, e nel 19% si arriva al 40%. In quasi il 9% dei reparti oltre il 40% dei pazienti avrebbe potuto non finire in ospedale.

Dimissioni più tutelate, ma non per tutti

Un segnale più positivo riguarda le dimissioni ospedaliere. Quasi il 44% dei pazienti viene oggi dimesso con un’assistenza domiciliare integrata attiva. Un altro 27% accede a una RSA, mentre il 21% va in una struttura intermedia. Solo l’8% dei dimessi torna a casa senza alcun servizio di supporto attivato. Una percentuale in calo, ma che mostra ancora criticità nel passaggio ospedale-territorio.

Case e ospedali di comunità: speranza e dubbi

La riforma della sanità territoriale, finanziata dal PNRR, promette un sistema più capillare con Case e Ospedali di Comunità in grado di ridurre i ricoveri impropri e facilitare le dimissioni. Ma la fiducia è parziale. Il 72% dei medici vede nelle Case di Comunità una potenziale soluzione, ma con molte riserve legate alla loro effettiva realizzazione, alla qualità dell’organizzazione e soprattutto alla disponibilità di personale.

Percentuali simili riguardano gli ospedali di comunità, strutture a gestione infermieristica dedicate ai pazienti dimissibili ma non ancora autonomi. Se ben funzionanti, potrebbero agevolare la dimissione tra l’11 e il 30% dei pazienti, secondo oltre il 65% dei medici interpellati.

Una sanità a bassa intensità solo sulla carta

Uno dei principali nodi critici individuati riguarda la classificazione dei reparti di Medicina interna come a bassa intensità di cura. Una scelta che non riflette l’effettiva complessità clinica dei pazienti ricoverati e che limita la dotazione di risorse e personale. Di fatto, i reparti si trovano spesso a gestire situazioni al limite della terapia subintensiva, senza strumenti né organico adeguato.

La conseguenza è un sistema sotto pressione in cui gli internisti sono chiamati a gestire quadri clinici sempre più articolati, in condizioni operative precarie e spesso improvvisate.

Ricerca sacrificata sull’altare dell’emergenza

Il sovraccarico assistenziale ha effetti negativi anche sull’attività di ricerca. Il 49% degli internisti non riesce più a dedicare tempo alla sperimentazione clinica, mentre il 43% dichiara di potersi impegnare meno di quanto vorrebbe. Eppure, i dati lo confermano: dove si fa ricerca, la qualità dell’assistenza migliora. Si aprono prima le porte a nuove terapie e si favorisce un aggiornamento continuo del personale.

Senza una regia unitaria la riforma rischia di fallire

Il potenziale delle nuove strutture previste dal PNRR è indubbio, ma manca ancora una regia vera che colleghi ospedali, territorio e servizi intermedi. Senza questo legame, ogni intervento rischia di tradursi in ulteriore burocrazia e inefficienza. In molte regioni si stanno attivando “centrali territoriali” senza una visione coerente, spesso slegate dai bisogni reali degli operatori e dei pazienti.

La posta in gioco: oltre due milioni di giornate evitabili

Secondo una stima precedente, oltre due milioni di giornate di degenza potrebbero essere risparmiate ogni anno con una presa in carico più razionale e strutturata. Per farlo servono investimenti mirati, personale qualificato e una revisione della classificazione dei reparti, che restituisca dignità e risorse alla Medicina interna, colonna portante della sanità ospedaliera.

Sempre più italiani scelgono la sanità privata e gli esami diagnostici privati per evitare tempi biblici: non può essere un caso

La crescente spesa sanitaria privata in Italia, che ha superato i 40 miliardi di euro nel 2023, è il riflesso di una realtà sanitaria pubblica sempre più sotto pressione. Le lunghe liste d'attesa, la carenza di personale e la percezione di una qualità inferiore dei servizi pubblici spingono molti cittadini a rivolgersi al settore privato, anche a costo di sacrifici economici. Questa tendenza solleva interrogativi sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale e sulla necessità di interventi strutturali per garantire equità e accesso alle cure per tutti.

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